16 Settembre 2024

Se la vita universitaria avesse un sapore sarebbe quello del caffè versato in un bicchiere di plastica. Un caffè blando, di quelli che si bevono per abitudine e necessità, dal retrogusto di una bustina di zucchero svuotata per intero. Uno di quelli dall’aroma che a lungo andare disgusta, ma che si continua a sorseggiare per qualche tipo di affettiva familiarità.

Credo si riduca tutto ad una questione di idea e significato che si attribuisce a tale miscela, il cui colore continua a variare d’intensità secondo un criterio a me ancora ignoto. In fondo, conviene convincersi che la stanchezza possa essere combattuta così, aspettandosi una sorta di immediata terapia ricostituente dal gusto discutibile. Di fatto, non funziona come si è sperato, le poche ore di sonno non possono essere cancellate da un caffè che neanche lo zucchero riesce ad addolcire. Qualcosa tuttavia succede, ed è abbastanza per dimenticarsi del sapore opinabile a cui si continua a sottoporre le proprie papille gustative. Se ne prende quindi un altro, ogni giorno, tutti i giorni. 

Si entra così in un loop da cui è quasi impossibile uscire, quello della dipendenza da caffeina di qualità scarsa, ma dalla forte connessione emotiva. Chiunque abbia inventato le macchinette del caffè nei luoghi di studio deve essere stato un genio del business. Chi come me, invece, si ostina quotidianamente a berli o è masochista o ha bisogno di illudersi un po’.

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