16 Settembre 2024

È piuttosto ironico pensare di essermi accorta di non saper dare gli abbracci dopo essermi trasferita al nord del mondo. Me lo hanno fatto notare in molti, sottolineando come io mi sottragga nell’arco di pochi secondi alla stretta dell’altro e mi congedi con due timide pacche sulla spalla, in genere la destra. Poi abbozzo un sorriso e mi guardo attorno, con un’espressione un po’ confusa.

Mi rendo conto di come ciò possa essere letto come disagio, ma è invece un semplice riflesso naturale che deriva forse dalla parte originariamente introversa del mio animo che col tempo ho imparato ad accantonare. La mia incapacità di abbracciare è dunque memoria di una riservatezza che spesso dimentico di avere, e che mi risiede dentro, tenue e impacciata.

Avvicinarsi ad una persona a tal punto da sentire il suo cuore battere, da scoprire come è scandito il ritmo del suo respiro, e prolungare tale interazione per più di un attimo, va contro il mio spontaneo istinto. Questo non vuol dire che non apprezzi tale contatto, anzi lo reputo una delle forme di intimità più pure che ci siano. Attribuisco semplicemente un valore così tanto profondo agli abbracci da avvertire la necessità autentica di misurarli. O forse è soltanto un sentimentale tentativo di giustificare un’anima che spesso è più nordica di quel che penso. È una tendenza più anticonvenzionale di quel che mi aspettassi qui in Olanda, a tratti non la capisco.

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