Utrecht, 1:20 am
In una camera in disordine, tra lenzuola da cambiare, c’è chi ha lasciato andare una storia. Non era una storia grande, di quelle che restano nella memoria. Era tanto sfocata che i contorni si fondevano con i colori e i dettagli scomparivano nelle parole.
Qualcuno ci credeva talmente tanto da non accorgersene, cogliendo le più belle sfumature di quel marasma perennemente indefinito. Aveva deciso di essere confusa, la storia. Ragionava da sè ormai, scandendo un ritmo irregolare che assecondava i suoi bisogni. Così andava e ritornava, girava e si fermava, rotolava e gattonava. Non che volesse andare davvero da qualche parte, un fine non lo aveva mai avuto. Era una storia in sé, e non per chi.
Eppure, su un letto sfatto, c’è chi dice che è stata importante. Vorrebbe disfarla, scomporla, dividerla. Prenderne i bordi e disegnare una nuova figura, dall’area forse più grande. Una nuova geometria con più spazio per respirare.
Con gli occhi socchiusi, si chiede come disegnare un poligono con solo due linee, mentre con naturalezza traccia un cerchio.
In qualche angolo di mondo, probabilmente intento a sorseggiare caffè amaro, qualcuno dice che è una cosa bella. Che delineare il cerchio sia stato il motore della storia, come fosse davvero destinata a tendere da qualche parte. Crede di avere ragione, che ci sia sempre una forza a muovere tutto. Un modo di vedere le cose forse più facile se le si deve lasciare andare: metterle in una prospettiva più grande e pensare dovessero andare così.
Tuttavia questa storia non è fatta di angolazioni, non ha la pretesa di essere rappresentata o raccontata. In fondo non l’ha mai avuta. È nata leggera e sfumata, ed è giusto che resti tale, senza doversi giustificare. È una storia che si è fatta da parte per lasciare spazio ad altro, le piace pensare così.