Lund, 5:46 pm

Scegliere di poter vivere vite diverse, potendosi permettere di circoscrivere certe fasi della propria esistenza entro un arco limitato di tempo, è un grande privilegio. Libera l’animo dall’onere di dover essere sempre uguale a se stesso e lo nutre con la leggerezza e l’entusiasmo di reinventarsi, trovando un suo equilibrio. Tuttavia, tale spazio di trasformazione continua porta con sé una difficile consapevolezza, quella della costante temporaneità della propria condizione, la quale è accompagnata da un peso non indifferente. Sapere di star vivendo un perenne stato di transizione, in cui tutto è a breve termine, si traduce spesso nella paura di concedersi e appartenere davvero alla realtà in cui si è immersi, muovendosi sempre un po’ in punta di piedi nella propria emotività. Come se il cuore, per quanto ardentemente lo desideri, fosse trattenuto dalla provvisorietà dell’intensità di qualsiasi sentimento riesca a percepire, accogliendolo con più discrezione di quanto meriterebbe.
E così, la leggerezza del cambiamento è smorzata dal timore di legarsi, traducendosi in una forma di cautela che frena la profondità dell’animo di chi forse avrebbe solo bisogno di un po’ più di tempo. Si tratta di un’inevitabile conseguenza di un’enorme condizione di privilegio, dove all’orizzonte di prospettive in continuo mutamento si associa una superficialità di cui spesso sono prive.
Subentra dunque una visione del mondo in cui tutto appare sostituibile da qualcosa di nuovo, e nella speranza sia più entusiasmante, lo si preferisce con grande facilità. Inseguendo così un un’illusione di gratificazione immediata, che si inserisce perfettamente dimensione in cui tutto ha una data di scadenza, si perde l’intimità che dà valore ai legami che si intessono con chi si ha attorno, e si vive forse con più spensieratezza e meno intensità.