18 Ottobre 2024

Ci sono figure di uomini la cui vita si intesse di mistero. Tale è la figura di Giuseppe Spagnuolo, solitario custode, guardiano delle rovine, dimentico abitante del paese dei ricorsi sbiaditi. Giuseppe Spagnuolo ha vissuto per anni tra i muri coperti d’edera e di erbe selvatiche di Roscigno Vecchia, il borgo abbandonato, la poesia romantica delle rovine, un clichè di moda nella vita e nella letteratura dei primi anni dell’Ottocento che forse non è mai tramontato del tutto. Ma non per poesia o per romanticismo ha vissuto in solitudine tra i resti di un paese che la gente era stata costretta ad abbandonare; piuttosto forse per inseguire senza mai raggiungerlo il mistero della sua anima, attenta a custodire il silenzio e la contemplazione come da sempre fanno gli eremiti. Nelle case abbandonate, nei vicoli chiusi, nelle fontane senza crocchio di donne, sugli usci invasi da radici e arbusti, forse Giuseppe ha portato in giro le sue domande che non conosciamo, avrà accarezzato le albe e i tramonti, dolci o gelati a seconda della stagione, nelle quali si cela la dimensione insondabile della bellezza e della vita, molto al di qua del chiasso, del rumore e dei riti pacchiani delle città, delle metropoli con le loro elettriche frenesie. Ungaretti diceva che “tutto, tutto, tutto è memoria”; Pavese cercava nei miti ancestrali la parola detta una volta per tutte, che non ha bisogno più di esegesi e commento; forse, magari senza neppure saperlo, era proprio questo che Giuseppe Spagnuolo ha cercato tutta la vita accordata con serena armonia ai vuoti di Roscigno Vecchia, nascondendosi nelle ombre sghembe delle case abbandonate, nelle geometrie litiche delle piazze vuote, nel sibilo sottile ed enigmatico del silenzio del quale era custode.

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