Forni di paese, l’economia sostenibile è nata ieri
Ogni casa aveva un forno, sì, ma non quello elettrico, a gas o microonde.
In alcuni luoghi o, per meglio dire, in altri tempi, le case delle famiglie più o meno abbienti possedevano un forno, nelle soffitte, fredde d’inverno e calde d’estate, o nelle aie o nelle cantinole. L’accensione per l’infornata veniva cadenzata con una frequenza stabilita come in un piano gestionale d’inizio anno che teneva conto di precisi criteri: quante persone costituivano la famiglia e quella allargata a cui si aggiungeva il numero delle famiglie vicine di casa o della parentela con cui si aveva l’usanza dello scambio del pane.
Una forma di economia popolare e domestica da portare ad esempio in tutti gli attuali corsi di economia sostenibile e sociale dal momento che si innestava un ciclo virtuoso per consumi a zero impatto e minore ancora produzione di rifiuto organico, giacchè, anche galline ed altri animali erano considerati nel calcolo iniziale di produzione.
Scientificamente da dimostrare e socialmente maestoso, probabilmente nessuno sapeva con certezza da quale famiglia sarebbe arrivata la produzione del pane settimanale eppure la coerenza di tempi, flussi, dinamiche e un’indecifrabile fiducia rendevano quel “balletto di panelle” che andavano su e giù per i vicoli, un evento sincrono con i cicli della natura; perché altro calcolo era anche quello delle fasi lunari. “Cresce o scresce?” ci si interrogava sulla luna ma l’azione si sarebbe ripiegata sul pane a lievitare, regole delle comari di paese e dell’universo a loro noto.
Oggi l’infornata del pane, benchè non un in forno a legna da 20 chili di carico, ha preso piede per diverse ragioni sociali ma sarebbe interessante anche ricordare e riassegnare a questa bella pratica l’antico compito di socializzare, mantenere i rapporti attraverso lo scambio, la condivisione, la solidarietà almeno per e dal vicino, oltre che di assicurare “il pane a tavola”.