Utrecht, 6:59 am

Vivo al di sotto di una finestra inclinata, in realtà proprio storta, di quelle che la luce te la proiettano dritta negli occhi senza mezzi termini.
Arriva obliqua, spacca il buio in due, si infila tra le pieghe del sonno. Si fa spazio tra le lenzuola, e ti fa il solletico, quasi a mo’ di dispetto. Si ferma sulle cose, come se le appartenessero, con fare invadente. E allora tu ti giri dall’altra parte, cerchi una tregua nel cuscino, ma lei niente, resta lì, appollaiata sopra la tua testa, convinta di avere diritto di stanza. Ti resta addosso, silenziosa e tenace, e ti sveglia attraverso quel rettangolo di vetro con la discrezione di chi non ha mai imparato a capire quando sia il momento d andarsene.
Verrebbe da pensare che basterebbe comprare delle tende per rivendicare il proprio sonno, o almeno per tenere testa a quell’irriverenza luminosa. Un gesto semplice, risolutivo. Ma la finestra, con quella sua inclinazione da errore strutturale mai corretta, sembra avere una volontà tutta sua. E quella luce, puntuale, sfacciata, ogni mattina si ripresenta come se niente fosse. Senza scuse, senza permesso. Alla fine la lasci fare, non per indulgenza, ma perché in qualche strano modo è l’unica cosa che non tentenna. C’è qualcosa in quella sua ostinazione che, per quanto invadente, ha del tenero. Fastidiosa quanto basta, familiare quanto serve. Un’insistenza goffa che alla lunga smette di darti fastidio e comincia a farti compagnia. Così le tende restano un’idea, mai un acquisto. Non per romanticismo, né per rassegnazione. Semplicemente perché tra tutte le cose che entrano nella tua stanza senza bussare, lei almeno lo fa in silenzio. E con una certa coerenza.