Lund, 2:55 pm

Fare la valigia, o meglio, tutto ciò che accompagna tale esercizio di pazienza mista a intelligenza pratica, è un processo profondamente stancante, dalla carica emotiva direttamente proporzionale a tutto ciò che si lascia indietro. Non si tratta solo di ottimizzare lo spazio, ma di fare i conti con la transizione da un capitolo della propria vita ad un altro, riassunta nella malinconica immagine di un bagaglio che non si chiude, ma che si vorrebbe continuare a riempire.
Accorgersi che tutto ciò che appare essenziale non trova posto nella geografia limitata di una valigia comporta infatti una selezione dolorosa, intrisa di prematura nostalgia. Presi dal sentimentalismo e dalla frustrazione per giochi d’incastri che sembra non funzionino mai, si ha l’impressione che mettere da parte alcuni oggetti possa spezzare il filo che lega la propria anima al luogo che si sta lasciando, come se rinunciare a qualcosa potesse provocare una sorta di amnesia irreversibile.
In ogni maglione piegato, in ogni fascicolo accartocciato, in ogni scontrino riposto distrattamente in tasca, si cela una storia che si teme di dimenticare per sempre. Eppure, con il passare delle ore, la consapevolezza che il bagaglio, nella sua capacità ridotta, non può contenere tutto ciò che si desidera, comincia a trasformarsi in un atto di accettazione. Si scende dunque a compromessi, non tanto con gli spazi, ma con se stessi, e guidati da un barlume di ritrovata razionalità, la valigia si ha finalmente voglia di chiuderla. Magari chiedendo una mano a qualcuno, magari sedendocisi sopra con un sorriso dolceamaro.