25 Aprile 2025
Unknown-27

Trovo che ci sia una relazione diretta tra la mentalità nordica e la propensione a semplificare le emozioni, smorzandone l’intensità affinché il loro peso specifico non alteri l’equilibrio perfetto di una routine frenetica e produttiva. Come se, per un tacito accordo, al nord del mondo si rispettasse qualche tipo di aspettativa latente, un patto non scritto che impone di filtrare la vita attraverso sentimenti forzatamente leggeri, spesso svuotati della loro naturale complessità.

Tale cultura della moderazione, che relativizza le tensioni dell’animo in nome di una serenità apparente, si traduce in un’opera di costante controllo che non è altro che un gioco di equilibrismi tra ciò che istintivamente si prova e ciò che si crede sia giusto provare in un’ottica prettamente razionale. In questa personale analisi, l’unico compromesso accettabile diventa l’imposizione di distanza emotiva, una sorta di anestesia preventiva rispetto ad ogni stato d’animo, positivo o negativo, che si ritiene abbia potenziale di sconvolgere la propria stabilità. Come se gli effetti collaterali dei sentimenti fossero un inconveniente, una distrazione inopportuna nel ritmo incessante della propria quotidianità. Che si traducano in una cronica perdita di concentrazione, qualche paranoia di troppo, o un sorriso decontestualizzato, c’è una collettiva tendenza a respingere le emozioni forti, talvolta sentendosi in difetto anche solo a sentirle e riconoscerle. 

E non so se perchè abituata ad approccio alla vita tipicamente mediterraneo, per cui gli stati d’animo vanno assecondati in tutto e per tutto, ma credo che in questa maniera nordica di relativizzare i sentimenti, nella pretesa di poter avere qualche tipo di potere decisionale su come ci si sente , si celi un autentico tentativo di prevenire ogni forma di eccessivo entusiasmo per paura di restarne profondamente delusi.