Il Principe cerca rappresentanza
Convenzione tra l’ente comunale e la società sportiva Salernitana in merito alla gestione dello Stadio Arechi, al “naming rights” e al modello di sviluppo urbano di “sport city”.

Se assumiamo uno sguardo largo sulle vicende di questi giorni che le pagine dei quotidiani e delle emittenti locali hanno risaltato al lettore acuto non potrà passare inosservata una vicenda che apparentemente confinata ad una dimensione sportiva, sapientemente decostruita nei suoi aspetti paradigmatici, assume ben altro impatto.
Trattasi della nota convenzione tra l’ente comunale e la società sportiva Salernitana in merito alla gestione dello Stadio Arechi, alla sua fruizione, al “naming rights” e ai profili di un modello di sviluppo urbano di “sport city”, così come declinato nelle parole del proprietario della società sportiva.
Ebbene, seppure non conoscibile ancora nel suo articolato, alcune tracce di quella (convenzione)che sarà un semplice contratto tra le parti pare emergere dalle parole degli interessati, diversamente da quanto invece fossero i propositi del patron della Salernitana: “un hub di valori”, un luogo in cui lo sguardo lungo del capitalismo fosse collocato nelle reti dell’economia della conoscenza.
“Reti” stese lungo il campo di gioco della squadra della città capaci di catturare flussi globali e locali promuovere, servizi, idee, attorno alla metafora aggregante della città: il granata!! Sotto un unico brand (Coca Cola?) che ribattezzasse i natali allo stadio cittadino Arechi.
Sullo sfondo le parti e le loro identità: il Comune con quel pizzico di severo ancoraggio all’interesse pubblico, all’uso rispettoso e sacramentale dello stesso, dall’altro, il capitalismo che reinventa uno spazio e traduce il fare impresa in valore, proponendo probabilmente l’idea di una città lunga e metropolitana che nello sport, abbandonando l’idea di rendita, cerca nessi con l’economia della conoscenza.
Un nuovo, modello, un salto culturale che cerca un approdo e che non può però rinviare ad un quesito politico culturale che interroga la politica, e perché no, il principio di rappresentanza che misura ogni cosa in democrazia.
Fa da cornice il dibattito mediatico che è rimbalzato sulle mura della città e sulle opportune considerazioni sostenute da entrambe le tifoserie, con una maggiore adesione, come sembra affiorare, alle posizioni c.d. innovative.
Un nodo che lascerà scontenti molti se dovessero essere confermate le tesi dell’Ente cittadino che, nonostante abbia aperto alla c.d. brandizzazione del “marchio Arechi”, non sembra cedere su un modello di partenariato diverso.
Nodo che avrebbe bisogno di altro e ben diverso respiro per essere sciolto se non passando per le ulteriori vie democratiche che il nostro ordinamento conosce, così “recuperando” la metafora aggregante in democrazia e perdendo quella dimensione scolorita di moltitudine informe che il popolo oggi spesso assume, benché le forme procedurali rituali.
Il varco c’è sulla via: un referendum consultivo sul “cambio” del nome dello stadio e sulle proposte ad esso inerenti in cui la voce autonoma tutta del popolo possa integrarsi alla volontà già legittimata del consesso governativo cittadino.
Di fondo ritorna il quesito sulla necessità di scovare spazi nuovi di partecipazione, di espressione, in grado di soddisfare le nuove domande dei cittadini, spesso strette nello spazio limitato tra le forme liturgiche di democrazia procedurale e l’identificazione totale della volontà popolare con gli esecutivi.
Il laboratorio di sviluppo urbano che la passione disegnata dalla metafora aggregante “Salernitana” ci consegna è patrimonio della città e meriterebbe un dibattitto ampio volto al disegno delle determinanti abili a creare ricchezza per il tessuto urbano.
In altri termini, lo stato di salute della politica, rectius, della democrazia si misura nelle risposte che conseguono alle proposte che i cittadini pongono o meglio, come in questo caso, fanno loro: compito di chi guida è di ascoltare e tradurre, il referendum si pone in tale traiettoria.
L’esito (e le proiezioni di sviluppo), potrebbe si allargare i confini di salute della democrazia ma collocherebbe lo sviluppo della città, oggi iper attuale, in una nuova filiera: un ecosistema dello sport, motore di attrattività in cui il formante strettamente sportivo lascia il passo allo sport inteso come funzione sociale e supporto per innescare processi, prodotti e servizi, collegati alle nuove applicazioni, tra sport e digitale, tra attività sportiva e salute, tra sport e infotainment, mondo sportivo e lesure.